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rappresaglia

rappresaglia [rap-pre-sà-glia] nome femm. (plur. rappresaglie) [etimologia: dal latino represalia(m)]. [1] In guerra, è un provvedimento molto forte e cruento in risposta a un precedente atto di aggressione da parte di uno Stato per proteggersi da una lesione dei propri diritti da parte di un altro Stato che si sia servito di mine antiuomo, armi chimiche o molto pericolose, oppure abbia danneggiato i civili, i monumenti e i luoghi sacri, gli edifici e gli oggetti che servono per la sopravvivenza delle persone, l’ambiente naturale e le centrali che producono energia. È permesso solo in casi molto gravi dal Diritto Internazionale Umanitario, l’insieme delle regole che limitano gli effetti dei conflitti armati contemporanei):  secondo il Diritto Internazionale Umanitario  le rappresaglie oggi ammesse devono essere dirette solo a obiettivi militari o a combattenti e devono essere sempre proporzionate all’attacco subìto. [2] Azione disumana e criminale messa in atto da una potenza che occupa un Paese nei confronti dei civili che le hanno causato un danno per vendicarsi: il 23 settembre 1943, il Brigadiere dei Carabinieri Salvo D’Acquisto si autoaccusò di fronte alle forze occupanti tedesche di un attentato in realtà non commesso, per salvare ventidue civili dalla rappresaglia. || rappresaglia mafiosa: azione violenta (che può essere sia fisica sia psicologica) messa in atto  dalla mafia contro lo Stato, i suoi esponenti e cittadini, ma anche contro i membri della mafia stessa, che ostacolano con parole e azioni gli obiettivi di controllo e di potere sul territorio che considera suo: Giuseppe, il figlio dodicenne del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, fu rapito e ucciso da Cosa Nostra per una rappresaglia mafiosa, perché suo padre aveva rivelato informazioni importanti sulla Strage di Capaci in cui perse la vita  il giudice Giovanni Falcone.

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